martedì 11 aprile 2017

Scrivere significa corteggiare la Musa dell'Impossibilità

LE VIRTÙ DELL'ARTISTA IMPERFETTO

Un giorno di dicembre del 1919, il ventenne Jorge Luis Borges, durante un breve soggiorno a Siviglia, scrisse una lettera in francese al suo amico Maurice Abramowics a Ginevra nella quale, quasi en passant, gli confessava i sentimenti contraddittori che nutriva verso la sua vocazione letteraria: «Talvolta penso sia stupido avere l'ambizione di essere un creatore più o meno mediocre di frasi. Ma questo è il mio destino». Borges sapeva fin da allora che la storia della letteratura è la storia di questo paradosso. Se da un lato c'è l'intuizione profondamente radicata negli scrittori che il mondo esista, per dirla con l'espressione abusata di Mallarmé, per sfociare in un bel libro (o almeno in un libro mediocre, come pensava Borges), dall'altro permane la consapevolezza che a governare quell'impresa sia quella che Mallarmé chiamava la Musa dell'Impotenza, (o, per usare una traduzione più libera, la Musa dell'Impossibilità). Nell'Autobiografia Mallarmé aggiunse che chiunque si sia cimentato nella scrittura, perfino i cosiddetti geni, ha tentato di completare questo Libro ultimo, il Libro con la L maiuscola. E tutti hanno fallito.
Questa doppia intuizione scaturisce dalla letteratura stessa. Vi è un momento, quando ci accostiamo per le prime volte alla lettura, in cui scopriamo che dalle macchie di inchiostro sulla pagina emerge un mondo compiuto e magicamente vero.
Questa esperienza ci trasformerà e, da quel punto in avanti, il nostro rapporto con il mondo tangibile e quotidiano non sarà più lo stesso. Dopo aver toccato con mano la capacità creativa del linguaggio, grazie alla quale le parole non soltanto riescono a comunicare e a etichettare, ma a dare vita a quanto etichettano e comunicano - quando siamo diventati cioè dei lettori - non potremo più percepire il mondo con innocenza. Una volta nominata, la cosa non è più se stessa, nel senso platonico che Borges avrebbe poi elaborato con grande passione: la cosa si desume dalla parola che la definisce, contaminata o arricchita dalla storia, dalle connotazioni e dai pregiudizi che tale parola porta con sé (...).
Così le nostre creazioni sono, nella migliore delle ipotesi, una copia approssimativa di una vaga intuizione della realtà, essa stessa un'imitazione imperfetta di un archetipo ineffabile. Questa è la nostra sola e umile prerogativa.
Perciò anche lo scrittore, che immagina un uomo e non può che crearlo a parole come un povero Golem, deve recitare la parte del Golem, una creatura imperfetta e capace soltanto di imperfezione, una creatura incompetente che in compenso solleva dubbi blasfemi sulla competenza del suo Creatore. In questo gioco di specchi mutevoli, il difettoso Golem diventa la nostra modesta, manchevole, onnicomprensiva letteratura, e la letteratura diventa il Golem, destinata a sbriciolarsi in un mucchio di polvere. «Il nostro scopo nella vita», scrisse Stevenson, «non è riuscire, ma continuare a fallire nella migliore delle intenzioni». E allora il fallimento, così come lo avvertono gli scrittori, non è soltanto l'unico esito possibile di un'impresa letteraria, ma ne è il fine, la massima realizzazione. (...) Ogni opera d'arte o di letteratura, che sfugga alla nostra comprensione, tanto da farcela chiamare grande è, in quanto tale, incompleta, perché deve mantenere vive le domande sulla sua essenza e incerta l'intuizione dell'insieme. Deve prevedere incrinature e varchi in cui il lettore possa spingersi a esplorare e interpretare. L'epilogo mortale dei racconti epici non pone mai fine alle eterne battaglie intraprese dagli eroi; le tragedie di Edipo e di Oreste rimangono insolute dopo Colono e Delfi; il padre di Amleto e lo spettro di Banquo continuano a vagare nel nostro immaginario, irrequieti, dopo la morte dei rispettivi oppositori; il lieto fine di molte narrazioni di Dickens è sopportabile solo perché poggia su una miriade di personaggi irrisolti che continuano la loro quest ben oltre l'ultima pagina del libro. Le uniche conclusioni assolute appartengono a storie di sola facciata, narrative prive di spessore e di profondità, sterili oggetti consumistici di fattura perfetta che assiepano gli scaffali di bestseller delle nostre librerie. «La stupidità», faceva osservare Flaubert, «consiste nel desiderio di concludere».
I modelli utopistici del mondo e le tabelle statistiche che misurano la realtà hanno una chiarezza rasserenante. In letteratura, però, le cose non funzionano così. La letteratura segue regole che prevalgono su quelle della fantasia e della realtà: non è fatta né di rosee speranze né di riscontri scientifici, né di arcadiche illusioni né di dogmi catechistici. Infatti, nonostante il desiderio di Dante, Beatrice alla fine - come sottolinea Borges in un saggio magistrale - sfugge al poeta; e Virgilio, fonte di ispirazione dantesca, deve mostrarsi fallibile, così come vuole la logica di sovvertimento delle cantiche; amici e nemici devono talvolta occupare posti inaspettati nell'Aldilà.E perfino il poema, la meticolosa, sorprendente, illuminata e illuminante Commedia, deve autodistruggersi. Le parole vengono meno a Dante e rifiutano di testimoniare la gloria ultima, lasciando il lettore abbagliato dal fulgore finale, quando volontà e desiderio si riassestano, con la muta consapevolezza che qualunque cosa sia o sia stata questa suprema rivelazione, essa «move il sole e l'altre stelle». (...) 

Alberto Manguel
frammenti dell'articolo pubblicato su Repubblica del 2 settembre 2011

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