martedì 4 ottobre 2016

Dov'è che tieni le matite?

Ma ora siamo sullo Strand e, mentre esitiamo sul marciapiede, una bacchetta lunga non più di un dito comincia a mettersi d’ostacolo alla velocità e abbondanza della vita. «Devo davvero – devo senz'altro» – ecco cos’è. Senza esaminare la richiesta, la mente si arrende al solito tiranno. Si deve, sempre si deve fare una cosa o un’altra; non si è mai liberi di divertirsi. Non è stato per questa ragione che tempo fa abbiamo escogitato quella scusa e ci siamo inventati la necessità di comprare qualcosa? Già! Ma che cosa? Ah, sì, una matita! Su, andiamo a comprare la matita. Ma proprio mentre stiamo per ubbidire al comando, un altro io contesta al tiranno il diritto di insistere. Scoppia il solito conflitto. Al di là della bacchetta del dovere, si distende in tutta la sua ampiezza il Tamigi – largo, triste, quieto. Lo vediamo attraverso gli occhi di qualcuno che si affaccia dall'Embankment una sera d’estate, senza un pensiero al mondo. Lasciamo perdere la matita, andiamo invece in cerca di questa persona (è subito evidente che quella persona siamo noi). Perché se potessimo ritrovarci dov'eravamo sei mesi fa, non saremmo di nuovo com'eravamo allora – calmi, distaccati, contenti? Proviamoci dunque. Ma il fiume è più mosso e più grigio di come ci ricordavamo. La marea porta al mare. Trascina con sé un rimorchiatore e due chiatte, il cui carico di paglia è legato stretto sotto coperte di tela. Vicini a noi ci sono due che si appoggiano alla balaustra, parlando piano, con quella curiosa mancanza di consapevolezza che hanno gli amanti, come se l’importanza di ciò che li lega reclamasse senza dubbio l’indulgenza della razza umana. Le vedute che vediamo e i suoni che sentiamo non hanno affatto la qualità del passato, non partecipiamo per niente alla serenità di chi sei mesi fa stava proprio qui, dove stiamo adesso. Sua è la felicità della morte, nostra l’insicurezza della vita. Lui non ha futuro, il futuro invade proprio in questo preciso attimo la nostra pace. Soltanto quando guardiamo al passato, togliendo al tempo l’elemento dell’incertezza, possiamo godere della pace perfetta. Come stanno le cose, adesso dobbiamo voltare, attraversare di nuovo lo Strand, trovare il negozio dove anche a quest’ora saranno pronti a venderci una matita.

È sempre un’avventura entrare in una stanza nuova; la vita e il carattere dei suoi proprietari le hanno infuso la loro atmosfera e appena entriamo ci assale una nuova ondata di emozioni. Non c’è dubbio, nella cartoleria hanno litigato.
Hanno sparato rabbia nell'aria. Ora hanno smesso, la vecchia – sono marito e moglie evidentemente – se n’è andata nella stanza sul retro; il vecchio la cui fronte rotonda e gli occhi a palla farebbero la loro figura sul frontespizio di un in folio elisabettiano è rimasto a servirci. «Una matita, una matita» ripeteva «certo, certo.» Parlava con la stessa distrazione ed effusione di chi s’è molto eccitato e poi tutto a un tratto represso. Cominciò ad aprire una scatola dopo l’altra e a richiuderle. Disse che era molto difficile trovare qualcosa, dal momento che avevano così tanti articoli. Si lanciò in una storia riguardo un certo gentiluomo, un avvocato, che s’era trovato nei pasticci a causa della condotta di sua moglie. Lo conosceva da anni; aveva rapporti col Temple da più di mezzo secolo, disse, come se volesse essere sentito dalla moglie nella stanza sul retro. Rovesciò una scatola di elastici. Alla fine, esasperato dalla propria incompetenza, aprì la porta a molla e urlò con violenza «Dov'è che tieni le matite?» come se la moglie le avesse nascoste. La vecchia entrò. Senza guardare nessuno, con una bell'aria di dignitosa severità ficcò la mano nella scatola giusta. Ecco le matite. Come avrebbe fatto senza di lei? Non gli era indispensabile? Per farli rimanere lì uno di fianco all'altra in quella forzosa neutralità bisognava essere particolarmente esigenti nella scelta della matita, questa troppo soffice, questa troppo dura. Loro zitti osservavano. Più stavano lì, più si facevano tranquilli; il calore diminuiva, la rabbia sbolliva. E senza una parola da entrambe le parti, la lite fu ricomposta. Il vecchio che non avrebbe sfigurato sulla copertina di Ben Jonson allungò la mano e ripose la scatola al suo posto, con un inchino profondo ci diede la buonasera, e scomparvero. Lei avrebbe tirato fuori il cucito; lui avrebbe preso il giornale; il canarino li avrebbe entrambi imparzialmente ricoperti di semi. La lite era finita.
Durante quei pochi minuti in cui era stato evocato un fantasma, ricomposta una lite e comprata una matita, le strade s’erano svuotate. La vita s’era ritirata al piano di sopra, s’erano accese le lampade. Il selciato era asciutto, duro; la strada di argento battuto. Ritornando verso casa attraverso la desolazione, ci si poteva ripetere la storia della nana, dei ciechi, della festa nella bella casa di Mayfair, del litigio nella cartoleria. S’era potuto penetrare in ognuna di queste vite un poco, abbastanza da darci l’illusione che non siamo incatenati a un’unica mente, ma brevemente, anche per pochi minuti, si possono avere il corpo e la mente di un altro. Si può diventare una lavandaia, un oste, un cantante di strada. E quale maggiore incanto e meraviglia che abbandonare le linee diritte della personalità e deviare in quei sentieri che portano alla boscaglia e ai tronchi spessi degli alberi fino nel cuore della foresta, dove vivono quelle bestie selvagge, i nostri simili?
È vero: fuggire è il più grande dei piaceri; andare a zonzo d’inverno la più grande avventura. E tuttavia, riavvicinandoci al nostro portone, ci conforta sentire che i familiari possessi e pregiudizi ci riavvolgono e proteggono, richiudendosi intorno all'io che il vento ha trascinato da un angolo all'altro della strada, e come una falena ha sbattuto contro la fiamma di tante inaccessibili lanterne. Ecco di nuovo la porta che conosciamo, ecco la sedia girata proprio come l’abbiamo lasciata, e la coppa di porcellana e il cerchio scuro sul tappeto. Ed ecco – guardiamola ora con tenerezza, tocchiamola con reverenza – la sola spoglia che abbiamo riportato dai tesori della città, una matita.

frammento dell'articolo Street Haunting: A London Adventure
Yale Review, ottobre 1927

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

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