domenica 18 settembre 2016

Settembre, al Molinetto del Lorenteggio

Il mese delle tane. Nell’aria si sente l’odore dell’inverno che si avvicina. Nelle strade risuonano i passi di chi sta cercando rifugio. Le albe arrivano piano, ammantate dalle prime foschie. Odore di bagnato, è questo che regalo a settembre. Fermarsi nell’autogrill al casello di Melegnano, annusare l’aroma forte della benzina, nei bagni dietro la stazione, quello acre di chi ha trascorso la notte viaggiando. Entrare nel bar e ordinare un caffè e un cappuccino, comprare il giornale, leggere i progetti nei visi stanchi degli altri viaggiatori. Tra poco saranno a Milano, le vacanze sono davvero finite. È questo l’inizio dell’anno nuovo. Rituali di un mondo in estinzione, si compiono di nuovo in questi inizio di mese. Riaprono le grandi fabbriche del nord, benché non si sappia fino a quando. L’aria già pesante si ispessisce ancora di più. Entrano gli operai, ormai
invisibili nelle statistiche e nella nuova sociologia. Finito il lavoro, finita la fabbrica come luogo di creazione di identità. Finito il modello fordista, dicono. Chi lo viveva, quel modello, ne sentirà davvero la mancanza? Non credo, come si può sentire la mancanza di otto ore di schiena spezzata, a mettere insieme pezzi di oggetti destinati all’usura e in quei gesti consumare la propria vita? Ma almeno si poteva dire: sono un operaio dell’Alfa, della Breda, della Marelli, dell’Ansaldo. Ora sono un cassaintegrato, un pensionato, nessuno. Se non produco non sono nessuno, ecco la folla degli invisibili che sale, come un’onda di marea, per le vie deserte della città. Tra poco riapriranno anche le scuole, il traffico lieviterà come un fungo impazzito, madri frettolose e padri distratti porteranno i figli sino al portone delle elementari. I negozi hanno cambiato di nuovo colori. Ora è tutto un apparire di zaini sgargianti quasi sempre più grandi
dei bambini, di diari di eroi dei fumetti, uno in particolare dovrebbe traslocare a Milano, si chiama Dylan e qui in città lo leggono tutti. I suoi fantasmi, i suoi incubi, già ci abitano in questa città. Riappaiono puntuali anche i venditori ambulanti, tanto dopo un po’ non ci si fa più caso. Riappaiono gli strilloni dei giornali di strada, sono tanti, anche se forse il più famoso è Terre di Mezzo. Le terre abitate dagli invisibili, da quelli che noi vorremmo non vedere.
Ma ritornano, indisponenti come coscienze che non si arrendono allo spirito del tempo. Sono terre che i nostri passi rifiutano di calpestare, sono mondi che i nostri cuori rifiutano di conoscere. Ma sono una delle anime di questa città desolata che non spera in nessuna redenzione e cieca annega, nel lavoro e nelle apparenze, la sua umanità dolente. Ma se si ha questo piccolo coraggio, varcare quella soglia, quest’ora che pare avvolta in veli pesanti, può
placare le inutili preoccupazioni delle notizie lette sui giornali, dei pettegolezzi variamente mascherati da attualità e cultura che infestano anche i pochi di buon senso. Ecco che uno squarcio si apre sul mondo degli invisibili, un varco in uno degli universi paralleli che popolano questa città. I più avventurosi, degli abitanti visibili della città, frequentano i ristoranti etnici che aumentano di giorno in giorno: eritrei, senegalesi, indiani. Qualcuno riesce anche a stupirsi della povertà di quelle cucine, meglio non andarci più di un paio di volte all'anno.
Ma queste porte sugli altri universi si chiudono tanto veloci quanto veloci si sono aperte. A nessuno è dato di abitare per più di qualche ora in un mondo che non gli appartiene.
Tutti tornano alla fabbrica, alla banca, all'ufficio, ai panini veloci, mangiati in piedi, tornano ai telefoni che squillano incessanti, tornano alle code serali del supermercato, all'aperitivo rubato prima di tornare a casa, allo sguardo prolungato di un collega nuovo che lavora al secondo piano. Se avessi un respiro sarebbe il respiro di un sofferente.
A settembre non piove quasi mai, a causa dell’ozono si sconsiglia a vecchi e bambini di uscire per strada. Ma uscire di strada per fare cosa? Intrappolarsi in corso Vercelli o in Corso Buenos Aires a guardare i negozi, ecco che appaiono i primi vestiti invernali. Quest’anno ancora le scarpe con le punte quadrate, come quando eri bambina. Vedere tornare di moda capi d’abbigliamento di adolescenze e infanzie lontane, questo è segno dell’essere passati di moda. Grande intuizione e addio moda, tra poco cominciano le sfilate di non si sa mai quale futura stagione. Chissà se faremo vacanze l’anno che verrà. Cos’altro succede di questi tempi?
Escono i nuovi film nelle sale di prima visione, pare che ci sia più gente che in passato al cinema, soprattutto di pomeriggio. Escono mucchi di nuovi libri, è un po’ una rentrée, anche se di consistenza di molto inferiore a quella francese o americana. Questo preteso cosmopolitismo è la mia più evidente malattia che finisce con il far risaltare tutti i tratti da città di provincia che posseggo. Però riprendono anche le attività culturali, fioriscono le associazioni e questo è un tratto che della città piace, e non solo agli intellettuali.
Libreria Utopia, Casa della Cultura, Punto Rosso, Libreria delle Donne, Casa Zoiosa, Libera Università delle Donne. Ce ne sono tanti, ma non abbastanza per sfamare tutti i bisogni inconfessati dei divoratori di libri, degli affamati di idee. Ce ne sono più di quanti non si creda in questa strana città. Consumatori abituali di razioni massicce di parole stampate.
Leggere per essere altro da quel che si è, leggere per scoprire quel che si è, leggere per essere altrove, leggere per alzare gli occhi e non vedere intorno a sé solo palazzi e visi annoiati, ma scorgere la nuvola a forma di drago, i bambini che corrono tra passanti esausti, vecchi
che giocano con i cani. Ma è settembre, settembre, ripeterlo come una cantilena.
È settembre, le giornate si accorciano, gli amori finiscono. Meglio non innamorarsi a settembre, questi amori nascono difettosi, è raro che vadano oltre le lunghe nebbie dell’inverno.
Meglio prepararsi, preparare le tane, foderarle di libri e scorte contro il freddo e contro il buio. Chiudersi nelle proprie piccole malinconie, andare a letto presto la sera. Ma prima uscire a passeggiare poco dopo il tramonto, mentre i lampioni si illuminano e per un momento quasi impercettibile tutto si acquieta e io divento silenziosa. Poi tornare in casa, ascoltare Köln Concert di Jarret e respirare l’aria umida della sera incombente. Indossare abiti neri e prepararsi a una notte di festa, anche senza molta voglia di stare in mezzo alla gente.


Elena Petrassi
Frammenti del tredicesimo mese
Atì editore 2007

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